Un secolo di
evoluzione tattica
L’Italia,
si sa, conta 60 milioni di commissari tecnici e Piacenza sotto questo punto di
vista non è da meno. C’è chi si limita alle chiacchiere da bar e c’è chi, come noi,
legge con gusto manuali di tattica o le relazioni di allenatori professionisti.
Dalla combinazione tra la passione per questi aspetti e la ricerca storica
nasce questa pagina di approfondimento, che ripercorre l’evoluzione della
tattica calcistica e le sue applicazioni concrete nella storia del Piacenza:
dalle nostre parti non sono passati grandi “maghi” del pallone (ad eccezione
forse del solo Gibì Fabbri), ma le soluzioni ingegnose e particolari non sono
mancate. Anche con grave danno delle coronarie dei tifosi…
INDICE
La preistoria: dalla piramide al metodo
Il calcio olandese di Gibì Fabbri
Zona atto secondo: Enrico Catuzzi
Franzini: evoluzione e involuzione
Il metodo, in Europa, fu affondato negli anni Trenta
dall’ennesima variazione del fuorigioco che nel 1925 viene nuovamente
modificato, diventando a due giocatori come al giorno d’oggi. Un passaggio
che rivoluziona il gioco perché i lenti terzini di posizione scaglionati fin
quasi a metà campo diventavano inutili, lasciando l’altro terzino e il
portiere in balia degli attaccanti avversari. Fioccano le goleade e gli
addetti ai lavori iniziano a pensare alle contromisure. L’inglese Herbert
Chapman, allenatore dell’Arsenal, la risolve così: arretra il centromediano
sulla linea di difesa, togliendogli compiti di costruzione e affidandogli
esclusivamente la marcatura del centravanti (è nato lo stopper). I terzini si
allargano a guardia delle ali avversarie, mentre i due mediani e le due
mezzeali si dispongono a quadrilatero sostituendo il centromediano come
fulcro della squadra. Nasce il sistema,
detto anche WM dalla disposizione
dei giocatori. Sembra banale, ma cambia tutto: il campo viene coperto meglio,
si sfruttano le fasce e soprattutto il marcamento diventa sistematico, a
uomo, con tutte le conseguenze del caso. Il gioco offensivo è una questione
di duelli individuali e per riuscire deve essere sempre più veloce, a
vantaggio (dicono i sostenitori) dello spettacolo. La coesistenza dei due sistemi di gioco è tutt’altro che
pacifica: è una guerra di mondi, con discussioni durissime a mezzo stampa per
tutti gli anni Trenta e Quaranta. Sono fieramente metodiste l’Austria di Hugo
Meisl e l’Italia di Vittorio Pozzo bicampione del Mondo, mentre il sistema è
di stampo inglese. Lo porta infatti in Italia il Genoa di William Garbutt nel
1939, ma solo con il Grande Torino vincitore di cinque scudetti riuscirà a
fare breccia anche nel nostro campionato. E tutti si precipitano a copiarlo,
dimenticando la radicale differenza di compiti e caratteristiche tra
giocatori sistemisti e metodisti. Il sistema a Piacenza sbarca nel 1949. Alla guida della
squadra c’è l’ex genoano Bruno Barbieri con compiti di allenatore-giocatore,
e Barbieri decide di impostare la squadra in chiave sistemista. Un
cambiamento che la stampa applaude soprattutto nella persona del giornalista
Camillo Perletti, voce nota e autorevole ma anche grande appassionato del
tema: “Trasformazione necessaria,
perché il sistema è ormai applicato da tutte le squadre, ma pure di non lieve
impegno perché costringe giocatori piuttosto anziani a modificare quasi
radicalmente la tattica e lo stile di gioco”. E qui iniziano i problemi. Le prime prove sono sostanzialmente un disastro. Vanno in
croce i mediani Fiorani e Bergamasco (che non a caso si ritirerà di lì a un
paio di anni) ma soprattutto il roccioso terzino Dante Ravani, ancorato al
clichè sistemista, che viene infilzato senza pietà dalle scattanti ali
avversarie ma anche dalla penna di Perletti: “…ha chiaramente mostrato di non gradire il sistema…è troppo dotato
per non sapere assimilare la nuova formula che, si badi bene, avrebbe dovuto
adottare volente o nolente se gli fosse riuscito di farsi ingaggiare da una
grande squadra come desiderava”. In più anche Barbieri, che si schiera
come centromediano, accusa paurose sbandate atletiche: “ha bisogno di fare del fiato, molto fiato” chiosa Perletti. Il debutto in campionato è un incubo: cinque gol subiti a
Gorizia, addirittura sei a Treviso. Ma dopo adeguata carburazione il Piacenza
di Barbieri chiuderà con un ottimo sesto posto, anche se l’esperimento
sistemista resterà per qualche anno un’eccezione isolata. Nel 1952 i Papaveri
di Mariano Tansini vinceranno a mani basse il girone, mancando di un soffio
la serie B, con il più tradizionale assetto metodista che sarà abbandonato
dal Piacenza solo a metà degli anni Cinquanta. Tra metodo e
sistema esistevano ovviamente una serie di “vie di mezzo”, antesignane del
catenaccio che andrà di gran moda dagli anni Sessanta: dal verrou svizzero, nato già negli anni
Trenta, al Vianema ideato da Gipo
Viani nella Salernitana, passando per il mezzo
sistema. Per usare una colorita immagine dell’epoca, “nasce dalla
psicologia di un tale che si mette le bretelle senza voler abbandonare la
cintura”: in fase offensiva, infatti, abbraccia la filosofia del sistema,
ma in fase difensiva non rinuncia a una protezione supplementare. Un’ala o un
mediano arretrato a terzino, un terzino che scala alle spalle dei difensori
come misura prudenziale: era nato il libero,
il giocatore addetto a spazzare via qualsiasi cosa filtrasse dalla linea dei
difensori, e che in questi termini rimase una peculiarità tutta italiana. Con
il mezzo sistema l’Inter di Foni vinse lo scudetto nel 1953, e con il mezzo
sistema Enzo Melandri cercò di curare i mali del Piacenza targato 1948/49. Il
poderoso Dante Ravani, nominalmente terzino sinistro, arretrato a libero (o, con
termine dell’epoca, “terzino volante”); il rivergarese Franco Torreggiani
schierato con la maglia numero 6 propria del mediano sinistro ma terzino a
tutti gli effetti. La variante sarebbe stata ripresa di tanto in tanto anche
da Attila Kossovel, nel campionato 1953/54, sempre con Ravani ultimo uomo. Negli schemi a fianco:
in alto il sistema o “WM”; in basso il “mezzo sistema” con l’arretramento di
un terzino (n.3) nel ruolo di battitore libero, e del corrispondente mediano
(n.6) al posto del terzino |
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In Ungheria invece aveva preso piede un’altra modifica
che ci interessa perché, inspiegabilmente, ce la saremmo ritrovata in casa.
La Nazionale magiara poteva contare nei primi anni Cinquanta su una linea
offensiva di straordinaria qualità, composta da destra a sinistra da Budai,
Kocsis, Hidekguti, Puskas e Csibor: la particolarità stava nel fatto che le
due ali e il centravanti giocavano particolarmente arretrati, per poter
lanciare gli inserimenti negli spazi di Kocsis e Puskas che giocavano nelle
zone di conflitto tra centromediano e terzino. In più, tale assetto
consentiva agli stessi Budai, Hidekguti e Csibor di inserirsi a loro volta
partendo da lontano, mandando in tilt la rigida marcatura a uomo del WM. Con
questo sistema, denominato MM, nel
1953 l’Ungheria si prese il lusso di rifilare 6 reti all’Inghilterra nel
tempio di Wembley, e l’anno successivo arrivò a un passo dal titolo mondiale. Sull’onda dei successi ungheresi l’allenatore cremonese
Ercole Bodini aveva provato a replicare questa tattica nelle file dei
grigiorossi, mandando a pallino lo schieramento difensivo piacentino nel
derby del 30 gennaio 1955 e suscitando la curiosità della stampa piacentina.
Nella stagione successiva Bodini passò proprio al Piacenza, adottando
nuovamente la tattica ungherese. Al di là dell’aspetto puramente spettacolare
di questo tipo di gioco, c’erano anche considerazioni più pragmatiche: la
squadra allestita dal commendator Albonetti mancava (almeno all’inizio) di un
centravanti di spessore, disponendo solamente degli imprecisi Ongaro e
Trabattoni. Abbondavano invece le mezzeali (Marchesi, Jacopini, Bernini),
mentre all’ala destra l’anziano Rossetti tendeva sempre di più a partire da
lontano. Da qui l’intuizione: Ongaro (o Trabattoni) punta
effettiva, con il numero nove, appoggiato dal castellano Bernini che
effettivamente ne beneficiò dal punto di vista offensivo realizzando ben 10
reti. Dietro, la finta ala Rossetti con Marchesi e Jacopini, a formare una
cerniera che oggi definiremmo “di mezzepunte”. I risultati non furono un
granché: pur imbottiti di giocatori offensivi, i biancorossi trovarono la
quadratura del cerchio solo quando, nel mercato di novembre, fu acquistato
dal Milan un tale Gastone Bean. Che infischiandosene della tattica cominciò a
segnare a raffica levando le castagne dal fuoco a Bodini e al Piacenza. Lo schieramento “MM” o
“all’ungherese” |
ZONA
ATTO SECONDO: ENRICO CATUZZI Facciamo un salto in
avanti di quasi quindici anni. Titta Rota chiude il suo ciclo nel 1988 dopo
aver portato il Piacenza in cinque anni dalla C2 alla permanenza in serie B,
il che ne fa l’allenatore più vincente della storia biancorossa prima di
Cagni. Ciononostante le critiche non sono mai mancate, legate soprattutto a
un calcio pragmatico, sparagnino, non bello a vedersi. Anche se ha vinto il
campionato di C1 1986/87 con 55 reti segnate. Anche se non ha avuto paura di
schierare insieme due punte (Serioli e Simonetta) e tre mezzepunte (Madonna,
Roccatagliata e De Gradi). Ma Garilli ha da tempo il
pallino di voler offrire al pubblico spettacolo insieme ai risultati. Così al
posto di Rota, come chiaro segno di rottura, viene ingaggiato il parmense
Enrico Catuzzi, uno dei profeti del “nuovo che avanza”, ovvero il gioco a zona (che come abbiamo visto
in realtà ha radici ben precedenti). Sono cambiati i tempi rispetto a Puppo:
adesso la zona va di moda grazie ai successi del Milan di Sacchi. Con
Galeone, e prima dello stesso Sacchi e di Zeman, Catuzzi è considerato uno
dei “padri nobili” del nuovo gioco, fin dai suoi esordi al Bari all’inizio
degli anni Ottanta. La squadra viene catechizzata ai nuovi dettami:
centrocampo “corto” e aggressivo, pressing e occupazione scientifica degli
spazi, attenzione alla preparazione tecnica con l’uso di palloni appositi per
migliorare il tocco, schemi tattici spiegati alla lavagna. Tutto l’opposto
del Titta, eccellente motivatore ma tutt’altro che un fine stratega. «Eravamo forti in attacco come le squadre
di Zeman, ma non ci tiravano mai in porta», dice Maurizio Iorio parlando
del Bari di Catuzzi. «È stato il primo
ad applicare l’organizzazione al calcio. Aveva un’idea di gioco basata sul
movimento senza palla, sulla corsa, sull’intensità: parole puntualmente
abusate nel calcio di oggi. Si parla molto di allenatori in grado di
conferire un’identità: lui ci riusciva 40 anni fa». Anche le prime recensioni sono entusiastiche: “Aria nuova nel Piacenza di Catuzzi – La squadra ha trovato schemi
efficaci e moderni” titola Libertà
dopo un’amichevole agostana. Piace l’ordine della manovra e dei ruoli
(Roccatagliata playmaker, Madonna e Signori le ali, Serioli centravanti vero
e non più a tutto campo come con Rota), la compattezza, la varietà di
soluzioni offensive per sgravare la stella Madonna. |
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Sarà un fuoco di paglia.
La squadra mostra un gioco gradevole ma scolastico e non incisivo a inizio
stagione, prima che alla seconda giornata arrivi il ciclone Messina. I
siciliani di Zeman e Totò Schillaci demoliscono il fragile impianto difensivo
con un perentorio 4-1. Iniziano le sconfitte, spesso di misura, talvolta
immeritate, quasi sempre segnate da distrazioni individuali o collettive di
giocatori che non riescono a digerire il nuovo assetto (soprattutto in
difesa). Il Piacenza si avvita in una crisi tecnica e di risultati, a
dicembre Catuzzi verrà sostituito dal più canonico Perotti che come primo
atto ripudierà la zona creando profonde spaccature nello spogliatoio. |
Con
Rumignani e soprattutto Cagni non si sentirà più parlare di zona: il tecnico bresciano,
che si ispirava dichiaratamente a Sonetti, Rota e Trapattoni, ne ripudiava
gli eccessivi rischi difensivi, preferendo un maggior equilibrio di squadra
che negli anni ha portato frutti notevoli. Viceversa, ha sempre trovato le
armi migliori per fare a pezzi la zona altrui. La
filosofia di base la riassume così nel suo blog: “La
distanza fra i difensori centrali e il centravanti deve essere sempre uguale,
non voglio vedere buchi in mezzo al campo. I primi difensori sono le punte e
i primi attaccanti sono i difensori”. Ovvero squadra corta, compatta,
aggressiva. La spina dorsale è chiara: portiere, libero, regista, punta. Il
centravanti è un ruolo chiave, regista d’attacco e insieme finalizzatore è
l’anello centrale di quello schema “palla
avanti-palla indietro-palla sopra” con cui spesso viene riassunto
sbrigativamente il Cagni-pensiero, fatto di un continuo gioco di sponde e
sovrapposizioni. Il Piacenza
dei miracoli, quello della prima promozione in serie A, è schierato a zona mista: un libero (Lucci) dietro
due marcatori (Chiti e Maccoppi, poi integrati da Polonia), eventualmente in
grado di interscambiarsi sull’uomo, mentre a sinistra il terzino (Brioschi o
Carannante) deve garantire la doppia fase di spinta e contenimento. A
centrocampo un mediano classico e tutta corsa sul centro-destra (Suppa) e un
elemento d’ordine e geometrie sul centro-sinistra (Papais) coprono le spalle
alla mezzapunta Moretti, piuttosto libero di svariare su tutto il fronte
offensivo. Davanti la chiave è la ricerca continua e ossessiva del gioco
sulle fasce, di cui erano maestri Turrini e Piovani, per sfruttare al meglio
le doti della punta centrale Totò De Vitis: abilissimo nelle sponde spalle
alla porta ma altrettanto svelto ad andare a raccogliere i cross dei
compagni. Un assetto granitico e
preciso, anche se non inderogabile per adeguarsi alle caratteristiche dei
giocatori. In particolare De Vitis si rivela un unicum difficile da replicare:
Ferrante, che lo sostituisce nel primo anno di serie A, era un attaccante più
votato al gioco in profondità e per questo il reciproco adattamento sarà
faticoso. Viceversa Caccia, ex seconda punta abile nel palleggio, avrà meno
difficoltà perché ha intorno una squadra profondamente mutata negli uomini.
Cagni infatti nella sua ultima stagione del primo ciclo (1995/96) dovrà
rivedere buona parte del suo impianto di gioco, pur mantenendo le linee
chiave, ma troverà non pochi problemi ricordando quella edizione come il suo
peggior Piacenza, nonostante il conseguimento della prima salvezza in serie
A. |
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Da
rimarcare poi la formula adottata nel campionato 1994/95, quando la squadra
appena retrocessa in B punta all’immediato ritorno nella massima serie. Come alternativa
in attacco è tornato da Verona un giovane attaccante del vivaio, Pippo
Inzaghi, che ha già in boccio le qualità che lo renderanno…Inzaghi: istinto
del killer in zona gol, capacità di giocare in profondità, ma anche
fondamentali piuttosto grezzi. “Non
avevo le caratteristiche della punta esterna, e al centro De Vitis faceva la
differenza” ricorda nella sua autobiografia. Ma i gol li sa fare, per cui
Cagni rivoluziona il suo Piacenza: Turrini viene arretrato come mezzala
destra, l’anziano Papais viene sostituito da Minaudo, atleticamente più
dotato, mentre in attacco Piovani diventa tornante destro con De Vitis e
Inzaghi di punta. Ah, in tutto questo Moretti resta al suo posto e giocherà
la stagione più brillante della sua carriera. Alla faccia del Cagni
catenacciaro. |
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Il fil rouge tattico del Piacenza “tutto italiano” non poteva che
restare dentro i canoni di una rigida ortodossia difensiva, ovvero la
marcatura a uomo. La stampa nazionale ovviamente aveva buon gioco a presentarci
come provinciali piuttosto singolari, rimarcando scelte che negli anni
Novanta apparivano ormai fuori tempo se non apertamente obsolete, ma che in
realtà erano un concentrato di puro pragmatismo. La categoria andava
mantenuta, e servivano strumenti affidabili: non c’era spazio per gli
esperimenti. Gli stessi allenatori (quattro diversi in quattro anni, dopo
l’addio di Cagni) venivano dichiaratamente scelti tra coloro capaci di
mantenere questa filosofia. Dunque il Piacenza era invariabilmente
schierato con un terzino fluidificante e due marcatori fissi: Polonia sulla
seconda punta, e uno tra Conte, Delli Carri e l’eterno Vierchowod sul
centravanti. Se le punte sono tre, tre diventano anche i marcatori (ovvio,
no?). Sulla mezzapunta avversaria (nomi a caso: Djorkaeff, Zidane, Rui Costa,
Veron…) spesso veniva aggiunto un marcatore in più a centrocampo, di solito
un elemento duttile come Fausto Pari o soprattutto Stefano Sacchetti, il
jolly per eccellenza. Punto fermo, ovviamente, il libero: classico, vecchia maniera, niente a che vedere con le
idee di Puppo o l’interpretazione moderna di Scirea o Baresi. Quindi tre
passi indietro ai compagni, con compiti di esclusiva regia del reparto. Dopo Lucci, tuttavia,
trovare interpreti del ruolo canonici e non adattati diventa sempre più
difficile. Si alternano Marco Rossi (un ex terzino ripescato in Germania), il
mediano Mazzola, i jolly Sacchetti e Lamacchi e il giovane Lucarelli,
specialista del ruolo allevato nella Primavera. È lui, nella stagione
1999/00, l’ultimo libero “puro” schierato dal Piacenza in serie A: ci tiene
compagnia solo il Bari di Fascetti, che ha in De Rosa il suo interprete.
Fascetti, peraltro, andrà avanti a schierare la difesa rigorosamente a uomo
fino alla sua ultima esperienza nella massima serie a Como, nel 2003. E a Piacenza? L’esonero
di Gigi Simoni segna il tramonto definitivo del libero. Gli subentra Maurizio
Braghin, che nella Primavera aveva già provato il gioco a zona e lo ritenta
alla guida della prima squadra. Nel finale di stagione si vede spesso
all’opera una difesa a tre con un elemento leggermente più staccato dietro i
compagni (Lucarelli, ma anche Lamacchi o Polonia). La parola fine sul ruolo
spetta nell’estate del 2000 a Walter Novellino: l’allenatore chiamato a
riportare il Piacenza in serie A già dal ritiro inizia a impostare una difesa
a quattro in linea, convertendo Lucarelli al ruolo di centrale nel quale si
esibirà fino ai 40 anni. |
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FRANZINI: EVOLUZIONE E INVOLUZIONE Pur senza aver introdotto
novità epocali, Arnaldo Franzini entra in questa rubrica in virtù della sua
lunga permanenza sulla panchina biancorossa e di una particolare involuzione
tattica “reazionaria”. Quando approda sulla panchina biancorossa nel 2015
riprende il 4-3-3, oliato negli anni del Pro Piacenza, dando alla squadra
un’impronta molto marcata e funzionale, che unitamente alla qualità
dell’organico genera una stagione da 96 punti. Fondamentali le due
catene terzino-ala: a destra spingono forte Di Cecco e Matteassi, a sinistra fa
da contrappeso Contini con Stefano Franchi, seconda punta che tende ad
accentrarsi. In mezzo al campo l’equilibrio è garantito da un “tuttocampista”
come Saber Hraiech sul centrodestra, e da una mezzala più fisica e abile
negli inserimenti (Porcino o più spesso Cazzamalli) sul centrosinistra, ai
lati del regista Taugourdeau. Al centro dell’attacco Franzini ama avere una
boa forte nel gioco aereo e capace di giocare con e per i compagni, saltando
all’occorrenza l’impostazione arretrata, ma Adriano Marzeglia vi abbina anche
un anno di grazia personale nel quale è implacabile cannoniere con 20 reti. Nella stagione successiva
in Lega Pro il canovaccio viene inizialmente replicato con successo, poi il
giocattolo si inceppa manifestando alcuni problemi: il calo atletico di
Matteassi, la scarsa integrazione dei nuovi acquisti nel congegno tattico e
una certa perforabilità per vie centrali. Franzini rimedia passando al 3-5-2,
già sperimentato in casi analoghi nel Pro Piacenza, per migliorare la
copertura e liberare lo sganciamento dei due terzini che si alzano. Chi
beneficia maggiormente di tutto questo è Taugourdeau, trasformato da regista
classico a incursore (la doppietta a Cremona nel 2016 resta da manuale) e
autore di ben 11 reti. L’alternanza tra i due
assetti sarà continua nelle annate seguenti, a seconda degli uomini a
disposizione e dello stato di forma (qui un’interessante analisi relativa alla
stagione 2017/18). In attacco giostrano la torre Romero e il lottatore
Pesenti, cioè due centravanti più di lotta e di manovra che non finalizzatori
puri. Il terzo difensore è spesso il mediano Della Latta portato sulla linea
arretrata con ampia facoltà di sganciarsi, ripetendo l’operazione compiuta
tempo prima nel Pro Piacenza con Silva, ex centrocampista che avrebbe
cambiato ruolo in modo definitivo. La manovra viene via via semplificata e
impoverita, si rinuncia a un regista in senso classico mantenendo spesso come
uniche valvole di sfogo le corsie esterne, il dinamismo del tuttocampista di
turno (Hraiech, Segre o Nicco) il cui stato di forma diventa determinante, o
il lancio lungo per la punta. Nasce qui l’immagine radicata e forse ingenerosa
di un Franzini spietatamente utilitarista e profeta del non-gioco, con
l’accusa di non aver fatto rendere al massimo la squadra quando nel 2019 ha
potuto lottare per la promozione mantenendo un atteggiamento troppo
guardingo. Né porta risultati apprezzabili nell’ultima stagione l’imposizione
dall’alto di un assetto di gioco a lui poco congeniale: il 4-3-1-2 con un
trequartista alle spalle delle punte (Cattaneo), un regista puro (Giandonato)
e una mezzala di chiare propensioni offensive (Corradi) viene accantonato
dopo poche partite tornando al più collaudato 3-5-2. «Quasi mai ho avuto
la miglior difesa, spesso ho avuto il miglior attacco. Il mio calcio è così»
dichiarava nel 2014: il cambio di rotta è stato netto. |
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Come avrete notato, nel corso
degli ultimi vent’anni circa non si sono viste alle nostre latitudini novità
rivoluzionarie che abbiano lasciato impronte durature o significative nella
storia recente biancorossa. Un po’ per atavica diffidenza e un po’ perché
siamo scivolati piuttosto in basso, latitano i portatori di idee innovative:
è obiettivamente difficile far applicare il calcio fluido di Guardiola (“lo spazio è il nostro centravanti”) a
onesti mestieranti della serie C. L’evoluzione ad alto livello è infatti
sempre più orientata ai principi
del gioco, ai sincronismi di squadra, alle transizioni offensive e difensive
e al superamento dei ruoli rigidamente codificati, piuttosto che su un calcio
ancorato a strutture più tradizionali come quello delle serie inferiori. E non è un caso che a
Piacenza i “profeti” non attecchiscano: se negli ultimi anni giovani tecnici
come Scalise e Maccarone hanno fallito quasi subito, già nel 2007 si era
registrato il flop di Mario Somma. All’epoca era considerato uno degli
allenatori più preparati dal punto di vista tattico con il suo 4-2-3-1 e gli esterni a piede invertito per
entrare in mezzo al campo, anche se a Piacenza si è visto poco o nulla di
quanto da lui teorizzato. Va poi ricordato il breve e sfortunato tentativo di
Vincenzo Manzo di far adottare al suo giovane Piacenza un calcio fatto di
possesso, costruzione palla a terra e organizzazione, nel campionato di serie
C 2020/21, e miseramente naufragato per l’obiettiva pochezza tecnica del
materiale umano a sua disposizione (qui un’analisi approfondita del suo
“credo”). Tra i professionisti tatticamente ben preparati va annoverato
Stefano Pioli (che ci ha lasciato interessanti lezioni sulla fase difensiva e offensiva del suo Piacenza nel 2009), salito
poi alla ribalta con lo scudetto del Milan e con una proposta
di calcio
molto elaborata nei sincronismi di squadra. Attendiamo con curiosità nuovi
profeti, ma restiamo affezionati a chi ci porta a casa il risultato: siamo
piacentini, no? |