Leonardo GARILLI
|
* 7/1/1923 Piacenza + 30/12/1996 Milano È davvero difficile, per chi stende queste
brevi note biografiche, raccontare qualcosa dell’Ingegnere che non sia stato
già scritto, sviscerato e analizzato nel corso degli anni. Le origini
dell’industriale, l’ascesa sportiva con i suoi retroscena tecnici e umani, il
suo carattere ruvido e singolare e infine la repentina scomparsa nel dicembre
1996 hanno già fatto scorrere fiumi di inchiostro ai giornalisti di
professione. Resta, da parte del semplice tifoso quale è appunto lo
scrivente, la riconoscenza per chi ha portato il Piacenza alla serie A, alla
ribalta nazionale, restituendo alla città l’orgoglio di essere piacentini
nelle mille sfaccettature che Garilli incarnava in
prima persona. Per tutto il resto, soprattutto a beneficio dei più giovani
che non lo hanno conosciuto e dei lettori non piacentini, ci affidiamo
all’articolo apparso su Libertà il
26 giugno 2012 a firma di Stefano Pareti, sindaco di Piacenza nel 1983. Agli
inizi del giugno 1983 l’ingegnere volle illustrare al sindaco e
all’Amministrazione comunale un suo progetto di rilancio del Piacenza Calcio.
Non gli bastava un qualsivoglia assenso: chiedeva una collaborazione concreta
e l’impegno del Comune a far sì che venissero evitati disfunzioni e
lungaggini. Disse che voleva fare qualcosa per la sua città, farla crescere e
conoscere: qualcosa che restasse. Non era un appassionato di calcio: prima di
quell’incontro aveva visto due o tre partite del Piacenza, solo per capire
l’ambiente, le sue regole, i suoi protagonisti. Aveva anche pensato di
diventare in alternativa il principale sponsor del Teatro Municipale, optando
poi per il calcio, perché in molti sollecitavano un suo intervento e perché
alcuni quadri della sua azienda avrebbero potuto interagire con lui nella
gestione del progetto. Era
orgoglioso e contento di essere piacentino: a suo modo era anche lui uno dei
tanti pendolari che rientravano la sera da Milano. Alternava un eloquio colto
e di elevata professionalità a espressioni dialettali piacentine cui
ricorreva per sdrammatizzare e per farsi meglio intendere. Tipiche ad
esempio: «Digal te a chelü,
cmé ‘dzum nöi a Piaseinza: i lucch j’enn cär
a tütt i prezzi». Oppure: «Ma te diil mia con ‘nsöin». E così,
dopo l’incontro e tutti i contatti e le verifiche che si possono intuire, il
15 luglio 1983 Libertà pubblicava la notizia dell’ingresso dell’ingegner Garilli nel mondo del calcio. Nel
1983 la squadra era in C2, ma l’ingegner Garilli
aveva già nella testa la serie A. Non ne parlava a nessuno. Se l’avesse
svelato gli avrebbero dato dello sbruffone visionario, ma lui comincia subito
a lavorare alla realizzazione di questo sogno. Non gradiva essere chiamato
“presidente” perché diceva, l’Italia è piena di presidenti: preferiva
“ingegnere” ed era orgoglioso dei suoi studi al Politecnico di Milano.
Scrivendo di lui come presidente, stiamo andando contro i suoi desideri.
Diceva infatti: «Se dovessi essere ricordato solo come presidente del
Piacenza Calcio, avrei sbagliato tutto nella mia vita». Era
sicuro di sé e dei suoi più stretti collaboratori. Agiva con dinamicità e
coraggio, senza timore di andare controcorrente nel mondo del calcio
professionistico. Puntò
da subito sui giovani come serbatoio di nuove leve e come investimento cui
poter attingere: intendeva creare un rapporto diretto tra squadre giovanili e
prima squadra. Si preoccupava sia dell’impegno scolastico dei giocatori che
della loro vita fuori dal campo: voleva che fossero uomini seri e di esempio
per i coetanei. Dopo una vittoria prestigiosa dichiarò: «Noi non siamo eroi,
ma quello che siamo non lo siamo per caso». Il suo
Piacenza era un modello di successo anche imprenditoriale, con una rigorosa
politica di bilancio e una gestione aziendale già collaudata nella Camuzzi. Qui sta la principale ragione della sua rinuncia
ad ingaggiare stranieri: i fuoriclasse non poteva permetterseli e neppure una
rete di osservatori internazionali. In assenza di queste condizioni si
rischiavano “bufale”: meglio evitare. Non gli bastava l’ordinaria
amministrazione, pretendeva il massimo dell’impegno e della serietà da tutti. Sosteneva
che il Piacenza non rappresentava solo la Società ma l’intera città e doveva
esserne all’altezza. Erano ragioni affettive a motivarlo, non ragioni di guadagno
o di gloria personale: non amava la notorietà. Ci teneva però che si sapesse
che lui stava facendo qualcosa di buono per la sua città. Si sottraeva ai
giornalisti e alle interviste, alle dichiarazioni e alla pubblicità. Il suo
stile era fatto di moderazione e signorilità, nel rispetto delle regole,
senza mai cedere al vittimismo o a presunti complotti a danno della sua
squadra. Era molto rispettoso degli organismi statutari del calcio e non
volle mai presentare ricorsi anche quando le ragioni forse c’erano. […] Non
interferiva mai nella gestione tecnica della squadra, lasciando
all’allenatore carta bianca. Negli incontri casalinghi, se non aveva doveri
di ospitalità, preferiva aspettare l’esito in ufficio, sotto la tribuna. Le
sue strette di mano erano temibili e a rischio ortopedia per l’interlocutore:
gli era congeniale il ruolo del burbero benefico, come un personaggio del
teatro di Goldoni. Nel
febbraio del 1996 rilasciò un’intervista per “Il Giorno” a Sandro Pasquali.
Dichiarava tra le altre cose: “Prima Piacenza la scambiavano per Vicenza; e a
Roma non sapevano neppure che esistesse, è un bel passo avanti, a mio
avviso”. […] Ancora Pasquali in un suo libro intitolato “Il sogno Piacenza
continua … e l’epopea dell’ingegnere varcò il terzo millennio”, volendo far
capire ai lettori come mai Garilli avesse deciso di
gestire il Piacenza Calcio, afferma: “Glielo aveva chiesto espressamente
anche il sindaco del tempo (’83) Stefano Pareti, preoccupato della piega che
stavano prendendo le cose intorno alla squadra di calcio, in quegli anni, a
livello societario”. Gianni Rubini ricorda ancora oggi che l’ingegnere di
tanto in tanto si sfogava con lui confidandogli in dialetto nostrano: «Am’la data una bella brügla,
Pareti!». É vero. Ma è altrettanto vero che non era da lui fare cose che non
lo appassionassero. Voleva bene a Piacenza e ha voluto fare qualcosa per la
sua città. Tutto qua, ma non è poco, come tutti abbiamo constatato. |